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Sergio Cerruti, intervista al presidente dell’Associazione Fonografici Italiani

Intervista a Sergio Cerruti

L’Associazione Fonografici Italiani (AFI), di cui è presidente dal 2018, è stata la prima, tra le sigle più grandi del mondo della musica, a rispondere all’invito di Casa Sanremo, che con l’iniziativa e l’hashtag #ripartiamodasanremo, vuole dedicare spazio a un lungo lavoro che gli addetti del mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento stanno portando avanti da quasi un anno ormai. Crede sarà raggiunto l’obiettivo di avere la giusta attenzione e azione da parte del Governo?

Non so se sarà raggiunto l’obiettivo, ma è sicuramente un passaggio fondamentale per poterlo ottenere. È indispensabile dare la giusta percezione imprenditoriale della cultura: la cultura è la spina dorsale dell’economia del paese. E questa percezione passa proprio dall’unione delle realtà che sono impegnate in questo settore.

Sergio Cerruti
Sergio Cerruti

La pandemia da Covid-19 ha portato alla luce una serie di pecche e falle del mondo della musica. A questo punto, seguendo Giordano Bruno, la catastrofe potrebbe diventare opportunità. L’opportunità di mettere ordine. Da dove iniziare e da dove ripartire?

Sergio Cerruti: Innanzitutto c’è bisogno di diversificare la definizione di musica, che è davvero molto ampia. La musica è intesa e percepita soprattutto come live e, sotto questo punto di vista, è indubbio che ci sia stato un blocco totale. Ma, come ogni medaglia, anche questa ha il suo rovescio. E se da una parte abbiamo avuto la paralisi dei concerti, con tanti colleghi in ginocchio, dall’altra, con le piattaforme legali di fruizione della musica, c’è chi ha festeggiato segni positivi.

Cosa vuol dire oggi fare musica?

Per tanti vuol dire seguire la propria passione e la propria creatività. Per quanto mi riguarda, dal punto di vista di produttore, è un lavoro impegnativo, composto da tante professionalità, che ricoprono ruoli fondamentali nella creazione della musica, che deve essere percepita soprattutto come un lavoro che muove l’economia, piuttosto che come un modo di coccolare il proprio ego.

I giovani sfuggono a ogni tipo di progettualità e utilizzano la piattaforma DistroKid per farsi ascoltare. Quanti, senza una guida, riescono davvero ad attirare l’attenzione delle label?

I giovani è giusto che sfuggano. È nella loro natura. Ben venga tutto quello che può essere una piattaforma di condivisione, che sicuramente impegna molto me e i miei colleghi. Sta a noi dedicarci a un attento lavoro di scounting, accorgerci dei giovani e non perdere talenti bravi. Dar loro delle opportunità.

Il ruolo del produttore musicale è diventato sempre più complesso nel corso del XX secolo e, oggi, con la “liquidità” della musica viene semplificato in “colui che crea, compone la musica su cui qualcun altro mette le parole”. La definizione di “produttore” può andar bene anche in questo caso o è completamente sbagliata?

La definizione di produttore è cambiata con il mercato. Innanzitutto c’è da fare una distinzione tra produttore artistico e produttore esecutivo: il primo vive nello studio di registrazione dove l’opera nasce e prende corpo; il secondo può avere o meno una sensibilità artistica. Oggi il produttore è una figura ancora più importante di ieri, perché il mondo della musica è sì ricco di opportunità ma anche di insidie. Purtroppo c’è una professionalizzazione scarsa con pochi che conoscono davvero il mestiere e tanti che parlano di cose che non conoscono.

Qual è il meccanismo delle label? Come funzionano? Come scelgono a che filone appartenere?

Le label, insieme al mercato, hanno dovuto riscoprirsi. Oggi ci sono label che non seguono schemi e label che seguono schemi 2.0. Credo che uno schema di gioco con regole di base dovrebbe essere mantenuto, sempre nell’ottica di dare la giusta visione della musica come impresa. E poi sono necessarie etichette che rischiano. Ci vuole, da parte delle etichette discografiche, il coraggio di supportare produzione fuori moda.

In un mondo giovane in cui rap, trap e indie prendono sempre più spazio, il rock dov’è finito? Forse ci hanno provato i Maneskin a riproporlo sui palchi? Altri esempi?

Rock never die. È uno dei generi musicali che amo. Non è facile duplicare i Maneskin, perfetto connubio “look and feel”. Ma credo ci siano altri giovani rock e credo che non siano neanche pochi. La questione è trovargli uno sbocco. I Maneskin suonavano in strada e là sono rimasti finché un talent non li ha sdoganati. Personalmente mi auguro più Maneskin, per avere una pluralità di scelta di ascolto, in un mercato che appare orientato, nei giovani, verso troppo rap, troppa trap, troppa indie.

 

Francesca Scognamiglio Petino