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Maria Tedeschi – La Maiastra e le vite invisibili

  1. Ci presenti il suo libro.

La Maiastra e le vite invisibili è un puzzle dai leggeri toni noir e introspettivi in una metropoli dove vite invisibili si cercano, si intrecciano, sognano frugando alla ricerca di sentimenti comuni, affinché la loro solitudine possa trasformarsi in forza comune, perché vivere, nonostante tutto, è sempre bello oltre ogni limite. 

Avevo un grande desiderio di ribellarmi alla patologica tirannia della visibilità soprattutto quando questa si trasforma in tossicodipendenza capace di annientare la nostra “umanità” che invece ci rende “belli” nella nostra imperfezione. Ho pensato a varie tappe della vita …ad esempio quando si invecchia e si diventa un po’ invisibili: nessuno viene a cercarti soprattutto se non hai più legami stretti o non sei autosufficiente. Sembra quasi di essere inutili e di troppo in una società egoista senza umanità che riconosce e gratifica solo ciò che è bello, vincente e utile.

L’ Invisibilità purtroppo colpisce ogni fascia d’età: c’è chi è invisibile già da bambino ma, talvolta, lo sono anche gli adolescenti e in generale le persone più vulnerabili di ogni età. Tutti i personaggi del mio libro appartengono a queste categorie. Ogni invisibile può essere portatore di felicità e bellezza, qualsiasi sia la sua età e condizione, e perdere la condizione di invisibilità. La sofferenza comune avvicina, fa “empatizzare”, rende più sensibili, fa crescere umanamente, diventare migliori e più forti sotto tutti i punti di vista.

  1. Ci regali un breve stralcio dell’opera, una parte che per lei è particolarmente significativa.

Ho pensato all’incipit:

Un vecchio malandato, questo è quello che resta di me e che leggo negli occhi di chi mi osserva. 

Non mi 

capita spesso di essere oggetto di interesse essendo poco più di niente, un fastidio per i miei familiari e solo una piccola fonte di guadagno per la donna che mi accudisce e che non vede l’ora di uscire da casa mia per riprendersi la sua libertà. Mi guardo allo specchio, non avendo altro da fare, vedo il volto di un vecchio raggrinzito, proprio quello che sono io. Conto le rughe, le uniche a farmi compagnia raccontandomi le loro storie. È una folla che non mi lascia mai da solo: il mio viso le ospita con piacere regalando a ciascuna di esse tutto lo spazio di cui hanno bisogno. 

Ecco la prima. Venne fuori prepotentemente subito dopo la nascita del mio Giacomo, le notti insonni e la stanchezza l’avevano alimentata a dovere e aveva scelto il posto migliore: il centro della mia fronte. Le voglio bene, mi è cara. È l’unico ricordo che mi resta di mio figlio che mi ha lasciato in maniera prematura. La morte è una gran maleducata, non rispetta i turni e l’anzianità. Avrei voluto tanto rieducarla e farle capire il rispetto, così come facevo con i miei bambini quando insegnavo alla scuola elementare. I miei metodi erano efficaci e, pur non avendo mai usato la bacchetta al pari dei miei colleghi del passato, riuscivo a trasformare i più duri in ometti docili e mansueti. Con “Lei” non c’era niente da fare, avevo deposto le armi. Era sempre stata irrispettosa portandomi via anche mia moglie che era di dieci anni più giovane di me, lasciandomi completamente solo. L’avevo affrontata più volte, ma mi aveva sempre ignorato così come facevano da tempo le persone del mondo che mi circondava. Occupavo uno spazio, ma mi sentivo come un clandestino che doveva rimanere nascosto per non essere visto o non disturbare con la sua presenza. 

Cosa ci facevo ancora lì se nessuno mi voleva o aveva piacere di stare con me? La mia era solo un’attesa e non mi restava che aspettare con ansia quel Godot di Beckett che tardava ad arrivare. Noi vecchi siamo ciarpame: non produciamo nulla e consumiamo poco, siamo ormai fuori luogo. La nostra “saggezza” non interessa più a nessuno, è stata sostituita dalle nuove tecnologie e lì sono i giovani a insegnare, ribaltando la nostra antica legge culturale. Perché non si nasce vecchi e si va poi a ritroso fino a diventare neonati, poi ovuli fecondati e poi il nulla? La vita sarebbe vissuta con più consapevolezza, l’esperienza già acquisita farebbe evitare gli errori e soprattutto permetterebbe di non sprecare i momenti di felicità e di gioia che la vita regala in maniera parsimoniosa. 

Su questo non c’è nulla da fare, non è mai successo: si nasce, si cresce e poi arriva improvvisamente il declino, ma solo per chi è “fortunato” come me. Ma che senso ha quel non vivere in attesa della morte? Tutto è terribilmente piatto tranne l’elettrocardiogramma e i miei alti e bassi di salute che mi ricordano che ci sono ancora, nonostante tutto. Il medico mi ha ordinato di non affaticarmi, il cuore è stanco e non può reggere sforzi intensi. In realtà non gli ho mai dato 

ascolto e ho cercato sempre di essere autosufficiente per non pesare o dipendere da qualcuno.

 La paura che qualche altra parte di me possa addormentarsi senza più svegliarsi, come è già successo alle due dita della mano destra e poi alla mia gamba, mi impone di tenermi “sveglio” almeno finché posso.

  1. C’è un aneddoto particolare che l’ha spinta a scrivere questo libro?

Forse la sua genesi. Questo libro nasce grazie al ricordo di una scultura che avevo visto alla Tate Gallery di Londra. Ero stata colpita dal suo invadente scintillio. Era una scultura così stilizzata e non avevo proprio idea di cosa fosse. All’inizio mi era sembrata un missile pronto al decollo e invece era l’uccello magico che Brancusi ha sempre utilizzato per le sue sculture: un uccello pronto a decollare ma forzatamente fermo. Durante il lockdown, questo uccellino Indicava bene quelli che erano i miei sentimenti e così all’improvviso mi è apparso e insieme a lui ho sentito bussare dentro di me una serie di personaggi che mi imploravano insistentemente di poter venire fuori. Li ho lasciati uscire nella maniera più naturale possibile dandogli voce e così piano piano è nato il romanzo   che vi sto presentando.

  1. Cosa si aspetta dalla partecipazione a Casa Sanremo Writers 2023?

Un’ esperienza bellissima e anche un po’ musicale. Amo la musica, e respirare l’aria di Sanremo, essere a Casa Sanremo dove sono passati i miei beniamini, mi fa sentire davvero bene. Godrò con tutti i miei cinque sensi di quello che questa bella esperienza mi riserverà. L’accoglierò a braccia aperte e senza timore come fa un bambino quando abbraccia la sua mamma.