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Emanuela Esposito Amato – Uno squillo per Joséphine

  1. Ci presenti il suo libro.

 “Uno squillo per Joséphine” è un romanzo ambientato a Napoli, che parla di seconde possibilità e della paura di non essere accettati per quello che si è davvero; per questo motivo i personaggi sono soliti indossare maschere che celano il loro vero io, e che li porta a nascondere i loro sentimenti più sinceri.

Joséphine Bressi, esperta antiquaria con innato talento per la preparazione di macarons e altri dolci, vive un periodo di crisi con il marito Massimiliano Martinelli, architetto di successo, poiché non riesce a restare incinta nonostante si sottoponga a cure invasive e rapporti programmati. La crisi della coppia si fa più profonda a causa delle ingerenze della suocera Amalia Cortese, da sempre ostile al loro matrimonio. Massimiliano si sta allontanando sempre più da sua moglie e non riesce a comprendere la sofferenza che lei prova per il suo calvario fatto di iniezioni, ecografie, procedure fastidiosamente invasive e speranze costantemente deluse. La ricerca del figlio che dovrebbe unirli li sta invece separando irrimediabilmente; la donna si sente persa, e soprattutto inadeguata.

Mentre si consuma la tragedia del loro matrimonio in declino, in un’altra parte di Napoli un uomo dal passato traumatico, Roberto, sta facendo i conti con le sue scelte: è un gigolò, e, per svolgere al meglio la sua professione, si è costruito una corazza di cinismo e di distacco, che gli ha sempre impedito di provare sentimenti profondi. Roberto ha conservato però un sogno nel suo gelido cuore: diventare un fotografo e abbandonare quindi la sua professione attuale, per poter finalmente essere sé stesso e cancellare il suo oppressivo alter ego. La sua vita cambia con uno squillo di campanello e con una proposta di lavoro molto vantaggiosa, che potrebbe aiutarlo a realizzare il suo desiderio – «Ho accettato l’incarico, abbagliato dalla possibilità di lucrare un bel po’ di denaro e cambiare esistenza. Tirarmi fuori dalla schiavitù della prestazione sessuale a comando, assaporare la libertà di non dover dipendere dalle voglie e dall’umore delle clienti. Realizzare il mio sogno: vivere per fotografare». L’incarico lo porta a incrociare il suo destino con quello di Joséphine. 

Poi ci sono i legami al tempo d’oggi, le conoscenze sui social, gli amori che iniziano via rete e tutte le loro sfaccettature. Credo che questo romanzo narri molti spaccati della vita contemporanea, della donna, dell’amore, della famiglia e di un concetto che mi sta molto a cuore: ognuno, in qualche modo, ha il suo “doppio”, un alter ego ingombrante con cui combatte sotterranee e silenziose battaglie.

Tra inganni e rivelazioni, racconto una storia di riscatto e di scelte coraggiose, in cui nulla accade per caso.

  1. Ci regali un breve stralcio dell’opera, una parte che per lei è particolarmente significativa.

Mi fermo a fare un po’ di spesa e qualche acquisto per il lavoro: candele profumate, bevande di vario genere, alcoliche e non, qualche confezione di fragole e frutti di bosco, in genere sempre ben accetti dalle clienti. Passo in lavanderia, ritiro i miei abiti e mi avvio verso casa. 

Entro, districandomi tra borse e pacchi e… Mi assale non appena varco la porta. Fetido, nauseante. Attacca le narici, poi giù, la bocca e lo stomaco. Lo sto ingoiando con la saliva amara e vischiosa. Mi affretto a mollare i miei acquisti e a uscire di nuovo sbattendo la porta dietro di me. 

Corro in strada, in cerca di aria, ma gli odori delle pizze, dei cuoppi fritti, dello street food mi attorcigliano lo stomaco. Un conato di vomito mi sale in gola, perle di sudore freddo lambiscono la mia fronte. Accelero il passo e m’inerpico tra i vicoli stretti del ventre di Napoli in cerca di aria migliore. Non che ce ne sia molta, ma forzando il ritmo della respirazione, ritrovo un po’ di stabilità e di equilibrio.

Le mani fremono quando telefono all’ impresa che si occupa della pulizia dei locali dove vivo e lavoro. Ero stato chiaro fin dall’inizio e avevo preteso che fosse inserito nel contratto. Non avrebbero mai, dico mai, dovuto usare la varechina, candeggina o qualsiasi detersivo che avesse componenti chimiche lontanamente simili. 

 Nessun problema, fino a oggi. In genere hanno sempre utilizzato detergenti alla lavanda, al limone o addirittura senza odore, cosa che preferivo. Ma l’impatto così violento e inaspettato, poco fa, è stato devastante. Rimetto il telefono in tasca. Non voglio parlare in queste condizioni, penserebbero che sono uscito di testa. In fondo avevano lavato con la varechina, magari in buona fede, pensando che una pulita più aggressiva avrebbe reso asettico il mio ambiente. 

Come potevano saperlo? Potevano mai immaginare il motivo per cui anche il solo sentore mi provocava una crisi di nervi? 

Che ne sanno di cosa significa vivere in una casa umida, con la muffa alle pareti, con gli scarafaggi che ogni tanto si intrufolavano negli interstizi e sgusciavano veloci sotto i miei occhi? La miseria ha un odore. Un cattivo odore. Ti accoglie quando entri in casa e ti insegue implacabile, prendendo possesso dei pori della pelle e insinuandosi subdola tra i capelli. 

 Che ne sanno del puzzo di cibo scadente e dell’olio usato più e più volte, irrancidito in strati sovrapposti, annidato e cementato tra le crepe? 

 Mia madre credeva di aver trovato il sistema per assorbire e neutralizzare tutto. La domenica si alzava alle sei, come ogni giorno, e cominciava la giornata con un bicchiere di vino. Sarebbe stato il primo di una lunga serie. Terminata la ‘colazione’, riempiva secchi di acqua e varechina che buttava ovunque. E strofinava. Strofinava con spazzole, stracci e strofinacci logorati dall’uso e dalla rabbia. Poi toccava ai panni, accumulati nella cesta da una settimana. Riempiva la piccola vasca da bagno, una specie di tinozza, della stessa soluzione e lasciava a mollo lenzuola, asciugamani, vestiti. Tutti ornati da chiazze di candeggina. Li sciacquava e li sistemava fuori, nello stendino accanto alla porta di casa, com’era consuetudine di tutti gli abitanti del Vico del Fico Al Purgatorio. Nelle giornate di pioggia veniva portato dentro, creando un’umidità ancor più malsana. Riscaldamento non ne avevamo. La stufetta si accendeva il minimo indispensabile. Quel poco da far sentire ancora più freddo quando la spegnevamo. 

Verso mezzogiorno toccava a me. Liberata la vasca dai panni, mia madre mi obbligava a immergermi per un quarto d’ora in una soluzione di acqua e bagnoschiuma a buon mercato al quale aveva aggiunto un tappo di varechina. Dopo l’ammollo, mi asciugava strofinandomi a lungo, quasi scorticando la pelle. Mi rivestiva alla meglio, malferma sulle gambe e con le braccia che non seguivano più alcuna sequenza. 

«Mo va’ a giocare, va’» biascicava. E mi spingeva fuori casa con i suoi modi bruschi. Immagino che si lavasse anche lei nella tinozza. Sempre che riuscisse a entrare e uscire dalla vasca, ubriaca com’era. 

 Girovagavo tra i vicoli in attesa che si facesse un’ora decente per tornare a casa, sperando di rimediare qualcosa da mangiare. Non di rado, invece, trovavo mia madre svenuta sul pavimento del bagno, con l’accappatoio addosso, la vasca piena e la bottiglia vuota. 

 Tornavo in cucina, allora, e rovistavo tra frigorifero e dispensa. Tutto quello che racimolavo, lo masticavo in fretta e furia per fame e disperazione.

Aveva un solo sapore: varechina. 

  1. C’è un aneddoto particolare che l’ha spinta a scrivere questo libro?

Non è propriamente un aneddoto. Più che altro, come spesso mi accade quando una storia comincia a farsi largo nella mia mente, ho “sentito” le voci dei miei protagonisti chiedermi di raccontare le loro vicende…E io l’ho fatto!

  1. Cosa si aspetta dalla partecipazione a Casa Sanremo Writers 2023?

 Spero di conoscere e dialogare con altri scrittori, vivere dall’interno la produzione di uno dei maggiori eventi mediatici. Molto sinceramente, mi auguro, altresì, che la mia partecipazione contribuisca a far conoscere il mio romanzo, le sue tematiche di spessore e me stessa come scrittrice.